Il Mio Oblò

La luce, filtrata dal vetro spesso e rotondo, disegnava un'aureola arancione sul pavimento di moquette sintetica. Era l'oblò, l'unico occhio della mia capsula – 2,5 metri per 4 – sul mondo esterno. Centoquaranta di queste unità modulari, tutte identiche, tutte agganciate al nucleo di cemento armato, formavano la Nakagin Capsule Tower, un organismo metallico e futuristico, un'utopia del Metaboilismo incastonata nel cuore pulsante di Tokyo.

Mi chiamavo Rina. La mia capsula era la 703, al settimo piano. Da qui, il mondo sembrava un film in muto, veloce e irraggiungibile. L'aria all'interno era ferma, aveva un odore sottile di metallo e solitudine, un profumo che conoscevo a memoria. Tutto era integrato: il letto-tavolo, la minuscola unità bagno in vetroresina, il pannello di controllo con i pulsanti che non premevo mai. La capsula era stata progettata per essere temporanea, sostituibile, un nido provvisorio in una città in perenne mutamento. Per me, era diventata il mio unico luogo. La mia prigione auto-imposta.

Osservavo le persone in basso muoversi come pedine impazzite: la fretta, i colori, i suoni ovattati che si facevano strada fin qui, amplificati dal silenzio della mia cella. Sapevo esattamente cosa stavo perdendo, ed era una consapevolezza acuta, un ago conficcato tra le costole. La vita vera era lì fuori, vibrante e caotica, un flusso continuo di possibilità.

Perché rimanere? Non era paura, non del tutto. Era un’attesa. Come la pupa aspetta di essere farfalla, come l'onda perfetta aspetta di infrangersi sulla riva. Era la convinzione intima, quasi un teorema matematico nel mio universo mentale, che ogni cosa ha il suo momento esatto. Uscire adesso sarebbe stato prematuro, uno strappo. Forse, la mia capsula, questo involucro di acciaio e oblò, era solo un simulacro, un costrutto mentale necessario per metabolizzare il passo successivo.

A volte, chiudevo gli occhi e immaginavo la mia capsula staccarsi, come avrebbe dovuto fare secondo il progetto originale di Kurokawa, per migrare verso un altro luogo, un altro nucleo. Ma sapevo che, per me, non sarebbe stata la capsula a muoversi, ma il mio spirito. L'uscita non era fisica; era una soglia interiore che andava raggiunta con la maturità giusta.

Toccai il freddo vetro dell'oblò. Forse domani. Forse tra un mese. Ma il traguardo era raggiungibile. Era lì, appena al di là del mio riflesso sul vetro, dove Tokyo aspettava che io fossi finalmente pronta. Fino ad allora, l'isolamento era il mio maestro, il mio allenamento silenzioso.

Nakagin Capsule Tower_Kishō Kurokawa

Tokyo, Giappone_1970

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